Tra le dichiarazioni più forti e profonde riguardo l’accoglienza dei migranti ci sono quelle di Papa Francesco. Risalgono al 2018 e l’occasione per pronunciarle era stata la Giornata del migrante e del rifugiato. Il Pontefice aveva puntato dritto al cuore, parlando di paure: “Sono legittime, fondate su dubbi comprensibili dal punto di vista umano. Non è facile mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze ed entrare nelle loro culture”. Secondo il Papa, quindi, il timore non è da condannare, ma da superare, altrimenti condizionerà le nostre scelte, comprometterà il rispetto e la generosità. “È un peccato rinunciare all’incontro con il prossimo” ha concluso.
Che la diversità e l’ignoto spaventino, non è una novità; è proprio il coraggio ad andare oltre, che ci permette di metterci alla prova e migliorarci. In un periodo in cui l’apparenza vince e tutto si consuma velocemente come un panino al fast-food, vale la pena di ampliare gli orizzonti e non fermarsi all’immagine. Si tratta di una vera e propria sfida con sé stessi quella di valutare attraverso i tanti gli strumenti che possediamo cosa sta succedendo nel mondo, non soltanto in Italia.
«È un problema italiano, è vero-, ha detto, – ma deve essere un problema europeo, di tutta l’Europa e non di un singolo Paese come l’Italia che ha fatto tanto». A quel punto il Pontefice, ha portato come esempio la Svezia, chiarendo che un Paese ha il dovere di salvare vite umane in mare, ma non può accogliere fino allo stremo se non ha possibilità di integrare chi arriva. «Se l’Italia non può accogliere, non può integrare, non può dare i giusti servizi a chi arriva perché è ormai saturo, deve chiedere anche agli altri Paesi europei di farlo», ha aggiunto Bergoglio, «se poi c’è il problema migranti, risolvetelo!». Una risposta perentoria, che è suonata come una doccia fredda per molti dei vescovi italiani radunati in Vaticano.
Il rischio di trasformare una tragedia umanitaria di proporzioni sterminate in un problema di semplice ordine pubblico e sicurezza è dietro l’angolo e porta a conseguenze devastanti. L’aiuto reciproco e la condivisione sembrano non appartenerci più; si tratta di una quesitone etica, nient’altro. Quanti episodi inquietanti, sul confine ovest tra Italia e Francia, hanno dimostrato la totale assenza di tolleranza nei confronti dei migranti; quante persone, di ogni età e sesso, che hanno messo in pericolo la propria vita in viaggio estremi, sono arrestate come criminali oppure scaricate senza scrupoli alla frontiera o, alla meno peggio, respinte. Non solo frontiere-fortini, muri e fili spinati sono crudeli: sono inutili. Invece che nemici, i migranti sono vittime.
Ma i migranti, affamati, disperati e alla ricerca di un improbabile posto nel mondo utopistico che viene loro promesso, non sono le uniche vittime. Tacitamente e senza clamore mediatico, assistiamo impotenti all’avanzare di un’altra silente tragedia umanitaria che coinvolge un numero crescente di martiri di questo tempo: la povertà. L’anno scorso, si stima che in Italia vivevano oltre 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta (circa il 7 per cento sul totale delle famiglie), per un totale di 5,8 milioni di individui (con un’incidenza pari all’8,4 per cento). Non meno allarmante è il dato sulla povertà relativa, che si riferisce all’impossibilità per le famiglie di acquistare determinati beni e servizi: quasi 9 milioni nel 2018 (circa il 15 per cento sul totale). Questi poveri sono in mezzo a noi. Essi non chiedono e non ostentano, e questo, pur vivendo nell’indigenza per aver perso il lavoro senza la speranza di una nuova occupazione. Molti di essi soffrono il freddo e la fame, ma non vanno a mendicare e non esercitano alcun ricatto morale: se ne stanno appartati e vergognosi, e di loro quasi nessuno si accorge, perché non esibiscono stracci e non ostentano sofferenze. Sono i grandi esclusi di questo tempo, figli legittimi di un Paese, l’Italia, che in virtù di un ricatto morale buonista, ci costringe ad accettare la possibilità di un’autodistruzione sociale e religiosa.
La verità è che il cristiano ha sicuramente il dovere morale di aiutare il prossimo bisognoso, ma non ha affatto l’obbligo di concretizzare questo dovere nella sola forma dell’accoglienza fisica di milioni di persone nel proprio Stato quando esso non può garantire un’effettiva integrazione. Questo ricatto morale pone il cristiano di fronte alla propria coscienza, chiamando ognuno di noi ad esercitare tolleranza in nome della fratellanza. Ma se gli spietati tiranni e gli amministratori corrotti che li opprimono, usano il denaro del sostegno internazionale per i loro interessi privati, questo non è un problema dei singoli cittadini europei; e i cristiani, in quanto tali, non sono chiamati a rispondere in solido di un disastro che non è provocato da loro, ma che, anzi, nasce in gran parte dal pessimo utilizzo della loro generosità, che non è mai venuta meno.
La nostra epoca non è la prima che assiste alle migrazioni: le popolazioni si spostano nel mondo da sempre. Certo, negli ultimi trent’anni i flussi si sono moltiplicati, ma per una causa semplice: il recente sistema politico ed economico ha generato disuguaglianze esorbitanti, concentrando patrimoni nelle mani di pochi, ha sfruttato e devastato enormi regioni del globo e ha dato il via a guerre fratricide per accaparrarsi le materie prime. La conseguenza? Milioni di persone costrette a lasciare tutto, dalle case ai propri cari. Se il corso della storia non si può fermare, si può gestire con senno e lungimiranza, lasciando perdere finalmente gli interessi dei singoli e dei potenti. Il primo grande passo verso un futuro migliore potrebbe essere garantire a tutti, non importa dove, istruzione e assistenza sanitaria e offrire la possibilità di vivere in maniera dignitosa e libera. Soltanto condizioni decorose, equilibrio sociale e giustizia (minimi) riuscirebbero a evitare l’esodo disperato al quale assistiamo inermi. Servono risposte di massa per affrontare fenomeni di massa, non miseri tentativi sperimentati su ideali sovranisti. Non si tratta di sforzi dettati dal tanto inneggiato buonismo: la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, del 1951, sono documenti dal valore incommensurabile, grazie ai quali è stata sigillata una stagione priva di scrupoli e crudele come non mai in favore di una nuova era più democratica. Forse è un punto di vista utopico, al quale si contrappone inevitabilmente il frutto dell’egoismo: la guerra.
Non dimentichiamo che l’immigrazione guidata con criterio e responsabilità diventa una risorsa preziosissima per lo Stato che accoglie. Non solo si trasforma in opportunità, ma assume la valenza di necessità. In Europa la natalità è bassissima e l’età media della popolazione è in continuo aumento; l’Italia è tra i Paesi in cui questi dati sono più accentuati. Se la tendenza troverà conferma, nel 2033 il numero di abitanti sulla Terra salirà di oltre 1 miliardo e mezzo per arrivare a 8,4 miliardi e i Paesi sviluppati caleranno nel complesso dei circa il 10 per cento (da 17,7 al 7). Nel caso in cui non si invertisse la rotta, in tempi brevi gli Stati più forti perderanno terreno sulla scala politica ed economica globale e in tempi lunghi l’estinzione non è da escludere. Questo spiegherebbe perché, in alcuni casi, viene tollerata e addirittura favorita l’iniezione di una “dose” massiccia di giovani, supportata da uno sguardo privo di preoccupazione nei confronti di chi ci raggiunge.
La speranza è che la ragion di Stato sulle politiche internazionali dei migranti, tenga conto anche delle priorità attinenti alla sopravvivenza e alla sicurezza dello Stato stesso, inducendo il decisore politico, a giustificare un’azione di argine alla celata invasione della nostra identità nazionale, affinchè lavoro, tradizioni e religione siano salvaguardate e difese.